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Palestina

Quali contadine e contadini per il futuro?

Vorremmo insegnare alle prossime generazioni il rispetto e la cura per la terra e per le creature che l’abitano.

Dovremmo trasmettergli i saperi e tramandargli le pratiche per una sana produzione e utilizzo dei cibi.

Ma come gli spiegheremo che abbiamo assistito in diretta alle devastazioni di territori e di popoli (quasi sempre per avidità) senza averle sapute impedire?

Come ci giustificheremo per non aver saputo fermare la lucida crudeltà che spinge alla follia dei genocidi?

Ghassan Soleiman Abu-Sittah è un chirurgo plastico che ha lavorato negli ospedali di Gaza dopo il tragico ottobre 2023.

Nei suoi racconti parla dei bambini e delle bambine. Parla delle persone alle quali la nostra generazione dovrebbe trasmettere i valori con cui prendersi cura del mondo di domani.

I racconti di Abu-Sittah (come tanti altri) non lasciano alcuna possibilità di voltarsi dall’altra parte.
Nessuno potrà più dire “non avevo capito la gravità di questa cosa”.

Gli ultimi giorni ad Al Shifa avevamo esaurito tutto. Amputavamo un braccio e poi davamo il paracetamolo: i pazienti morivano di dolore. Molte ferite si infettavano. Cercavamo di fare quello che potevamo per tenerle pulite. Ma non avevamo morfina né anestetici, come la ketamina. Eseguivamo procedure chirurgiche davvero dolorose senza anestesia, anche sui bambini. Un giorno ho dovuto pulire la ferita di una bambina di 9 anni. In medicina questa procedura la chiamiamo “sbrigliamento”, si tratta della rimozione del tessuto danneggiato o infetto: farlo senza anestesia è dolorosissimo. Ho le sue urla nel cuore. Lei urlava, suo padre piangeva, io lavoravo e intanto mi cadevano le lacrime, non riuscivo a frenarle. Aveva la febbre alta, le ferite da schegge erano piene di pus, se non avessimo agito subito sarebbe morta. Le rimuovevo parte dei tessuti, lei piangeva disperata, e io anche. È un atto barbarico farlo senza anestesia. Non so se oggi sia ancora viva, spero di sì. Questo mi fa impazzire.

Fonte: intervista su Corriere della Sera, 02/12/2023

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No-OGM

Perché diciamo NO ai Nuovi OGM

1. Perché i nuovi OGM (TEA) non sono sicuri per la salute

Descritte come tecnologie mirate e precise, le New Genomic Tecnniques (in italiano TEA, Tecniche di Evoluzione Assistita) provocano in realtà anche centinaia di tagli involontari e casuali nel DNA dell’organismo “bersaglio”.

Secondo l’Agenzia per la Salute e la Sicurezza Alimentare francese (ANSES) questo può portare le piante a sviluppare tossine e allergeni nuovi e potenzialmente dannosi per la salute.

2. Perché i nuovi OGM non sono la risposta al cambiamento climatico

I promotori dell’ingegneria genetica sostengono che le loro tecniche siano in grado di ridurre l’uso di pesticidi e fornire colture adatte a condizioni climatiche estreme come la siccità e agli agenti patogeni.

Queste affermazioni sono prive di fondamento.

Negli ultimi trent’anni, le colture geneticamente modificate hanno portato a un aumento dell’uso di pesticidi e non si sono dimostrate più tolleranti alla siccità.

3. Perché i nuovi OGM sono un business per le multinazionali

Bayer-Monsanto, BASF, Corteva e Syngenta sono le più grandi multinazionali agrochimiche e sementiere del mondo. Insieme, hanno in mano il 62% del mercato globale delle sementi.

Tramite i brevetti sulle NGT renderanno gli agricoltori sempre più dipendenti da un manipolo di aziende.

C’è di peggio.
In un sistema dove non c’è più tracciabilità, la biocontaminazione causata da pollini OGM migrati grazie agli impollinatori o agli agenti atmosferici, potrebbe spingere tratti brevettati da un campo all’altro, inquinando quelli di agricoltori biologici o non-OGM. A quel punto, le aziende detentrici dei brevetti potrebbero denunciare i contadini per violazione della proprietà intellettuale, l’agricoltura biologica perdere il suo valore e la nostra sicurezza alimentare essere messa a rischio.

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Palestina

OHCHR: “raggiunta la soglia che indica che Israele ha commesso un genocidio”

Ground invasion and aerial bombardment have destroyed agricultural land, farms, crops, animals and fishing assets, gravely undermining people’s livelihoods, the environment and agricultural system.

Conclusion: “There are reasonable grounds to believe that the threshold indicating Israel’s commission of genocide is met.

Anatomy of a Genocide – Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967, Francesca Albanese

Human Rights Council, Fifty-fifth session, 26 February–5 April 2024
Agenda item 7 – Human Rights situation in Palestine and other occupied Arab territories

Leggi qui il rapporto originale integrale.

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Palestina

Mazin Qumsiyeh, biologo palestinese resistente

La Palestina non è mai stata un Paese povero e non aveva problemi strutturali o una carenza di risorse naturali. I palestinesi crescevano il loro cibo e lo esportavano: la maggior parte degli agrumi in Europa venivano importati dalla Palestina qualche anno fa. Siamo parte della mezzaluna fertile, dove gli esseri umani hanno sviluppato l’agricoltura. Poi, è arrivato il sionismo e ha portato povertà e pulizie etniche. Dei 13 milioni di palestinesi nel mondo, 7,5 sono rifugiati o sfollati”.

La colonizzazione ci ha preso 11 migliaia di miliardi di dollari di proprietà, fra case, terre ecc. Come i Bantu in Sudafrica, che erano dipendenti dall’economia sudafricana perché erano sotto assedio e non potevano produrre e importare il loro cibo, noi ora siamo nella stessa situazione. Israele guadagna 12 miliardi di dollari all’anno tenendo l’economia della Cisgiordania in ostaggio. E questa cifra non tiene conto del saccheggiamento delle risorse naturali: acqua, minerali del Mar Morto, petrolio e gas naturale sulla costa del Mediterraneo, in acque palestinesi. Anche escludendo le terre occupate nel 1948, il gas naturale nel Mediterraneo e nelle acque al largo della striscia di Gaza, che è stata occupata nel 1967.”

Tutte queste politiche violano le leggi internazionali.

Secondo Mazim Qumsiyeh la colonizzazione può finire in tre modi: con i colonizzatori che se ne vanno (come in Algeria), con il genocidio dei nativi (come nelle Americhe), o con la convivenza tra i discendenti dei colonizzatori e dei colonizzati.
Non c’è un quarto scenario.
Dividere un Paese fra colonizzatori e colonizzati non è un’opzione possibile, non è mai successo, non può succedere per tantissime ragioni.

Mazin Qumsiyeh è un biologo, scrittore e attivista non violento palestinese. Ha vissuto molti anni negli Stati Uniti, ha insegnato a Yale e alla Duke University, è tornato in Palestina nel 2008. È stato fondatore e tesoriere nazionale di Al-Awda, la Coalizione per il diritto di ritorno palestinese negli Stati Uniti. È stato presidente della Fondazione per la conservazione della Terra Santa e dell’Associazione mediorientale di genetica. Fondatore e Presidente del Museo di storia naturale della Palestina e dell’Istituto per la biodiversità e la sostenibilità all’Università di Betlemme.

I brani qui sopra vengono dall’intervista di Mazin Qumsiyeh a Irene Ivanaj che trovi qui completa in originale.

Qui in podcast l’intervista a Mazin Qumsiyeh per Stories di Cecilia Sala.

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Dicono di noi

Comune-info 05/03/2024

Le trecento persone che si sono incontrate a Roma per la tre giorni “Cambiare il campo” hanno messo a confronto esperienze e desideri intorno al tema dell’agricoltura contadina, ma hanno anche dimostrato che è possibile camminare insieme. Un’assemblea permanente tra tanti attori diversi non ha bisogno di essere immaginata, la si crea facendola. La prima proposta è già in campo: un insieme di iniziative diffuse per fermare la deregolamentazione dei nuovi Ogm in Italia e in Europa

Oltre trecento persone provenienti da più di novanta organizzazioni contadine, ambientaliste, dei lavoratori, dell’economia solidale, dai movimenti per la giustizia climatica, dall’accademia e da collettivi autorganizzati si sono incontrate a Roma, in una “conferenza contadina” tenutasi dall’1 al 3 marzo presso la Città dell’Altra Economia. Organizzata da un collettivo promotore, con il supporto del Centro Internazionale Crocevia (e il contributo dell’Unione Buddhista Italiana), la conferenza si è data l’obiettivo di mettere a confronto esperienze, bisogni e soluzioni dal basso per favorire la convergenza di attori che rappresentano un’alternativa già esistente ma sottovalutata al sistema agricolo industriale.

Questo modello, basato su monocolture, chimica di sintesi e ipermeccanizzazione, è responsabile della perdita di biodiversità agricola e alimentare, legato a logiche di standardizzazione e de-stagionalizzazione tipiche della grande distribuzione, corresponsabile della crisi climatica e della strutturale precarietà del lavoro bracciantile.

A questa visione, la conferenza contrappone la forza delle più avanzate pratiche ecologiche nella produzione del cibo, che fanno riferimento all’agroecologia e al concetto di sovranità alimentare coniato dai movimenti contadini internazionali. Queste esperienze sperimentano forme comunitarie e territoriali di economia sociale e solidale, di cura gli ecosistemi, dei diritti sociali e della biodiversità.

L’impegno emerso dalla tre giorni è concretizzare la convergenza dei tanti attori del cambiamento verso un’assemblea permanente delle realtà organizzate, capace di azioni concrete e capaci di incarnare una narrazione nuova e un modello diverso, volto a rispondere alle sfide della crisi climatica, economica e di democrazia che oggi attanagliano il nostro paese e il pianeta in generale.

In questi ultimi mesi abbiamo visto un’accelerazione da parte dei gruppi di interesse dell’agroindustria per far fallire le spinte verso una transizione dell’agricoltura. Per questo è stato importante l’incontro di tutte le realtà che in Italia realizzano ogni giorno una visione diversa.

La conferenza contadina è un primo passo per dimostrare che l’alternativa non è solo possibile, ma è già in atto. Il processo di convergenza verso forme di dialogo nazionale tra le organizzazioni è ciò che serve per mostrare che non si tratta di esperienze singole e atomizzate, ma di attori del cambiamento con la volontà di modificare gli attuali rapporti di forza.

La prima proposta è già in campo: una mobilitazione nazionale per fermare la deregolamentazione dei nuovi OGM in Italia e in Europa. Tra il 25 aprile e il 1° maggio gli attori della convergenza si mobiliteranno sui territori per far sentire la voce di chi difende il principio di precauzione, rifiuta la contaminazione delle proprie colture ad opera di organismi geneticamente modificati e brevettati dalle grandi imprese e vuole mantenere etichettatura e tracciabilità per garantire la libera scelta ai consumatori. A fine maggio si prevede una seconda tappa della campagna contro la liberalizzazione dei nuovi OGM, con una manifestazione nazionale a Roma.

A partire da questi primi appuntamenti, il movimento per la convergenza agroecologica e sociale continuerà il suo lavoro di tessitura e allargamento, per convogliare la ricchezza della diversità degli approcci in una voce organica e capace di fare da contraltare a quella dominante.

Leggi qui l’articolo originale completo

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Dicono di noi

Comune-info 04/03/2024

L’ossessione del mercato per il nuovo, considerato di per sé migliore, ha finito per sviluppare un’allergia per qualsiasi cosa che venga considerata innovativa. Anche nel più interessante pezzo del movimento contadino che si è riunito a Roma per rafforzare le alternative contadine e agroecologiche alla filiera del cibo industriale rimbalza la domanda se sia sufficiente tornare alla forme tradizionali di produzione contadina. In realtà, l’agricoltura contadina ricorda che la tradizione è il frutto di millenni di innovazione dal basso, un processo che è stato rallentato dall’agri-business. E allora, scrive Massimo De Angelis, l’innovazione bisognerebbe chiamarla così, senza peli sulla lingua, compagna, per distinguerla da quelle innovazioni che servono solo a riprodurre il capitale. Nell’innovazione compagna, la misura delle cose che legittima la propria introduzione non è un elemento isolato puramente quantitativo – come l’aumento della produttività o dell’efficienza per l’innovazione capitalistica -, ma una configurazione di bisogni e desideri basata su più fattori: la riduzione del tempo di lavoro, la cura del suolo e degli ecosistemi, l’aumento della redditività delle piccole produzioni contadine schiacciate dal mercato capitalistico, il mantenimento di prezzi a livelli che rende prodotti genuini accessibili….

Leggi qui l’articolo completo originale

E leggi su comune–info.net anche i commenti critici:

  • Giovanni Pandolfini, 04/03/24 “analisi e commento della tre giorni legittimo ma molto personale e scivolosissimo. Anche io ero presente ai lavori della conferenza e quanto espresso in questo articolo è (meno male a mio avviso) tutt’altro che condiviso da molti dei presenti. Un passo falso verso la convergenza auspicata dagli organizzatori
  • Roberto R., 06/03/24 “Si, è bello pensare all’innovazione (e alle tecnologie, e alle energie, e alle scienze, …) come compagne. Bello utilizzarle nei nostri campi e nelle nostre vite per fini differenti da quelli per i quali sono nate. In contesti conviviali, rispettosi dell’umano e dell’oltre-umano, oltre e contro gli schemi dominanti.
    Ma queste innovazioni (e tecnologie, ed energie, e scienze, …) non nascono spontanee. Sono frutto quasi sempre di ricerca e lavoro e tempo governati da progetti pensati e finanziati e sviluppati in un mondo che non vorremmo.
    Per questo non basta pensare all’innovazione compagna ma dobbiamo anche risolvere il problema della <<ricerca compagna>>. Questo dev’essere il prossimo passo.
  • Bernardo G., 07/03/24 “L’innovazione tecnologica si fa con la ricchezza economica da investire in primis nella ricerca e per costruire le macchine non serve solo denaro. Serve disponibilità di risorse minerarie preziose, e serve manodopera (a basso costo di preferenza) ed energia disponibile per costruirle. Poi ci dovremo ancora indebitare per comprarle e per pagare le bollette per farle muovere…
    Questo tipo di ricchezza per questo tipo di innovazione è frutto del gioco dell’economia capitalista che, quando non è di sfruttamento, è un’economia di guerra!
    Quando poi il gasolio, il gas, i metalli e il cibo arriveranno di nuovo alle stelle, dovremo decidere se mettere in moto il trattore per vangare o il furgone per andare a fare il mercato. Altro che innovazione tecnologica! A quel punto guarderemo di nuovo la zappa ma forse non avremo più neanche la terra.”
  • Aldo Zanchetta, 09/03/24 “Il lemma dell’Esposizione Universale di Chicago del 2033 diceva: La scienza scopre – La tecnica applica – L’uomo si adatta.
    Da allora l’uomo è stato costretto sempre più ad adattarsi …
    Questa è la logica intrinseca dell’homo tecnologicus.
    Illich, che lei cita, aveva detto: Quello che più mi preoccupa non è ciò che la tecnica fa ma iò che dice alla mente dell’uomo.
    E oggi sappiamo alcune cose che gli ha detto.”
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Dicono di noi

Terranuova 04/03/2024

Oltre 300 persone appartenenti a più di 90 organizzazioni contadine, ambientaliste, dei lavoratori, dell’economia solidale, dai movimenti per la giustizia climatica, dall’accademia e da collettivi autorganizzati hanno preso parte alla conferenza contadina “Cambiare il campo” che si è tenuta a Roma dall’1 al 3 marzo. Annunciate mobilitazioni in aprile e maggio.

 Organizzata da un collettivo promotore, con il supporto del Centro Internazionale Crocevia e il contributo dell’Agenda Ecologia di Unione Buddhista Italiana, la conferenza si è data l’obiettivo di mettere a confronto esperienze, bisogni e soluzioni dal basso per favorire la convergenza di attori che rappresentano un’alternativa già esistente ma sottovalutata al sistema agricolo industriale. «L’attuale modello, basato su monocolture, chimica di sintesi e ipermeccanizzazione, è responsabile della perdita di biodiversità agricola e alimentare, legato a logiche di standardizzazione e de-stagionalizzazione tipiche della grande distribuzione, corresponsabile della crisi climatica e della strutturale precarietà del lavoro bracciantile – spiegano i promotori, molto soddisfatti del successo ottenuto dall’iniziativa alla quale ha preso parte anche Terra Nuova – A questa visione, la conferenza contrappone la forza delle più avanzate pratiche ecologiche nella produzione del cibo, che fanno riferimento all’agroecologia e al concetto di sovranità alimentare coniato dai movimenti contadini internazionali. Queste esperienze sperimentano forme comunitarie e territoriali di economia sociale e solidale, di cura gli ecosistemi, dei diritti sociali e della biodiversità».

«L’Unione Buddhista Italiana ha sostenuto con convinzione la prima conferenza contadina, che ha visto una partecipazione straordinaria di persone che traducono l’ecologia profonda in azione quotidiana sui campi – spiega Silvia Francescon, responsabile dell’Agenda Ecologia di Unione Buddhista Italiana – Il nostro impegno è a fianco di chi incarna l’economia della cura: la cura della biodiversità e delle relazioni ecologiche, la cura di un lavoro che dà valore alla dignità delle persone e che promuove un’agricoltura estensiva, non intensiva, un’agricoltura che rigenera e non desertifica, che si fa custode di saperi, non di monocultura. In questi giorni abbiamo assistito a un desiderio di vicinanza delle persone e delle comunità contadine che si è già trasformato in convergenza su proposte concrete. Come Unione Buddhista Italiana rinnoviamo l’impegno a sostenerle e a continuare a diffondere la cultura dell’agroecologia anche attraverso le scuole contadine che sono al centro della nostra azione di cura».

L’impegno emerso dalla tre giorni è quello di «concretizzare la convergenza dei tanti attori del cambiamento verso un’assemblea permanente delle realtà organizzate, capace di azioni concrete e capaci di incarnare una narrazione e un modello diverso, volto a rispondere alle sfide della crisi climatica, economica e di democrazia che oggi attanagliano il nostro paese e il pianeta in generale» spiegano i promotori.

«In questi ultimi mesi abbiamo visto un’accelerazione da parte dei gruppi di interesse dell’agroindustria per far fallire le spinte verso una transizione dell’agricoltura – dice Stefano Mori, coordinatore del Centro Internazionale Crocevia – Per questo è stato importante sostenere l’incontro di tutte le realtà che in Italia realizzano ogni giorno una visione diversa. La conferenza contadina è un primo passo per dimostrare che l’alternativa non è solo possibile, ma è già in atto. Il processo di convergenza verso forme di coordinamento nazionale tra queste esperienze è ciò che serve per mostrare che non si tratta di esperienze singole e atomizzate, ma di attori del cambiamento con la volontà di modificare gli attuali rapporti di forza».

La prima proposta è già in campo, uscita dalla tre giorni come una priorità del mondo contadino: una mobilitazione nazionale per fermare la deregolamentazione dei nuovi OGM in Italia e in Europa. Tra il 25 aprile e il 1° maggio gli attori della convergenza si mobiliteranno sui territori «per far sentire la voce di chi difende il principio di precauzione, rifiuta la contaminazione delle proprie colture ad opera di organismi geneticamente modificati e brevettati dalle grandi imprese e vuole mantenere etichettatura e tracciabilità per garantire la libera scelta ai consumatori. Il 25 maggio si prevede una seconda tappa della campagna contro la liberalizzazione dei nuovi OGM, con una manifestazione nazionale a Roma. A partire da questi primi appuntamenti, il movimento per la convergenza agroecologica e sociale continuerà il suo lavoro di tessitura e allargamento, per convogliare la ricchezza della diversità degli approcci in una voce organica e capace di fare da contraltare a quella dominante».

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Dicono di noi

Comune-info 24/02/2024

Il loro punto di partenza è un rifiuto: un grido contro le politiche e le narrazioni che sostengono la mercificazione e l’industrializzazione del cibo. Ma quel “No!” abbraccia anche la spinta verso un mondo diverso, che possiamo creare, dicono, qui e ora. Non ci sono forze da accumulare per un domani migliore: possiamo far emergere adesso, ad esempio, le diverse alternative agroecologiche al sistema alimentare industriale. Possiamo farlo perché quelle alternative, con inevitabili limiti, esistono già. Nel promuovere tre giorni di incontri “Cambiare il campo” a Roma (1-3 marzo), il Collettivo per una Convergenza Agroecologica e Sociale, tra l’altro, scrive: “Guardiamo e ci ispiriamo ai movimenti contadini e indigeni, alle lotte contro l’estrattivismo, alle alternative agroecologiche che, ad ogni latitudine, resistono e provano ad affermarsi…”

Dal 1 al 3 marzo si terrà a Roma “Cambiare il Campo”, una grande conferenza contadina in dialogo con i movimenti sociali ed ecologisti (qui programma). Si tratta di un evento che mette all’ordine del giorno la necessità di convergenza tra coloro che vogliono far emergere e rafforzare delle alternative agroecologiche al sistema alimentare industriale. L’abbiamo immaginata come una prima tappa nella costruzione di spazi di iniziativa comune tra realtà rurali e contadine,
esperienze di economia solidale, reti alimentari locali, mondo della ricerca, movimenti sociali e per la giustizia climatica.

Il percorso che porta alla conferenza nasce da persone con storie diverse che insieme hanno partecipato alla costruzione della manifestazione “Convergere per insorgere” del 22 ottobre 2022 a Bologna, convocata dagli operai in mobilitazione della fabbrica GKN di Firenze. In quel contesto abbiamo attraversato, con lo sguardo di chi si batte per l’agroecologia e la sovranità alimentare, un primo importante momento di convergenza tra tante realtà che lottano per una radicale trasformazione della società e dell’economia.

Non volevamo disperdere quel prezioso patrimonio di relazioni e di riflessioni e abbiamo quindi deciso di creare le condizioni per ulteriori momenti di confronto e iniziativa. Così è nato il Collettivo per una Convergenza Agroecologica e Sociale, il cui obiettivo prioritario è proprio quello di organizzare la conferenza di marzo. Da diversi mesi stiamo lavorando alla preparazione di questo evento e nel frattempo il collettivo si è ulteriormente ampliato.

Perché una conferenza contadina? Terra, agricoltura e alimentazione rappresentano oggi questioni di grande rilevanza politica. Il sistema alimentare industriale è ormai ampiamente riconosciuto come corresponsabile dei profondi squilibri socio-ecologici che affliggono il nostro tempo. La sua sete di profitto produce una strutturale dipendenza dai combustibili fossili e una folle caccia alle risorse. Monocolture, allevamenti intensivi, appropriazione privata delle risorse genetiche e brevetti sui semi sono solo alcune delle facce che questo modello distruttivo può assumere. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: cambiamento climatico, distruzione dei territori, erosione della biodiversità e sfruttamento di lavoratrici e lavoratori, cibo che anziché nutrire danneggia la salute di chi lo consuma.

D’altra parte, però, esistono già delle alternative praticabili. Il contesto italiano è particolarmente vivace da questo punto di vista. Sparso nei territori, infatti, esiste – e resiste – un fitto reticolo di associazioni, realtà rurali, cooperative, associazioni, reti di economia solidale e sindacati che prova a mettere in atto delle alternative concrete al complesso
industriale del cibo, contestandone in modo più o meno esplicito la logica di funzionamento. Queste esperienze mettono in primo piano la necessità di una radicale trasformazione del sistema alimentare. Esse appaiono, di conseguenza, come tassello fondamentale della possibile transizione a un sistema economico e sociale più giusto ed in grado di rispondere efficacemente alla crisi eco-climatica.

Nonostante queste resistenze, però, i processi di industrializzazione dell’agricoltura e del cibo non sembrano in alcun modo arrestarsi. I dati dell’ultimo censimento dell’agricoltura sono impietosi. Il numero di aziende agricole continua a ridursi (negli ultimi vent’anni è più che dimezzato), mentre la loro dimensione aumenta, segno di una forte tendenza alla concentrazione. Il ricambio generazionale è fermo e l’accesso alla terra, soprattutto per i più giovani, è sempre più un miraggio.

Ad essere minate sono le basi stesse di una transizione verso un modello agroecologico che, senza contadini, non è nemmeno immaginabile. Le politiche pubbliche, a tutti i livelli di scala, sostengono attivamente – e finanziano – il consolidamento di queste tendenze, favorendo le unità produttive a più alta intensità di capitale, i grandi gruppi industriali e la GDO. Il tutto occultato da narrazioni tecnocentriche esplicitamente orientate al greenwashing e alla cooptazione selettiva di idee e istanze nate dal basso. L’agricoltura industriale prova così a tingersi di un verde sbiadito, diventando “di precisione” o “climaticamente intelligente”; biotecnologie e OGM di nuova generazione promettono di risolvere in modo miracoloso e in un battito di ciglia tutte le contraddizioni del sistema senza cambiare di una virgola il sistema stesso; la peggior destra arriva persino ad appropriarsi dell’espressione “sovranità alimentare”, patrimonio prezioso dei movimenti contadini transnazionali, istituendo un ministero che porta questo nome.

È evidente la presenza il conflitto in atto tra due prospettive molto diverse ed è chiaro che dobbiamo attrezzarci per riuscire a reggere questo confronto.

Sentiamo quindi la necessità, proprio a partire dai semi di cambiamento che le reti associative, i movimenti e le esperienze diffuse nei territori hanno gettato, di costruire un percorso di ricomposizione e organizzazione.
Serve più che mai una voce collettiva forte e indipendente che faccia propria la battaglia per una radicale trasformazione del sistema alimentare; che metta in discussione le politiche e le narrazioni
che sostengono attivamente la mercificazione e l’industrializzazione del cibo; che faccia emergere e rafforzi le alternative basate sull’agroecologia e sulla sovranità alimentare.

L’idea, dunque, è quella di costruire un percorso che parta dai territori in cui viviamo ma, allo stesso tempo, con lo sguardo rivolto al mondo. Guardiamo e ci ispiriamo ai movimenti contadini e indigeni, alle lotte contro l’estrattivismo, alle alternative agroecologiche che, ad ogni latitudine, resistono e provano ad affermarsi. Ma, in questo momento, il nostro pensiero è anche rivolto a ciò che sta accadendo a Gaza, dove la violenza devastatrice della guerra sta lasciando solo macerie e annichilendo la vita di un popolo in quanto tale. In quell’area si celebra con un massacro l’atto conclusivo di un lungo processo di spossessamento di terra e risorse a spese dei e delle palestinesi. La prospettiva di cambiamento che vogliamo darci non può prescindere dalla solidarietà nei loro confronti. Ed è con questo spirito che invitiamo coloro che si riconoscono in questo bisogno di profondo cambiamento a partecipare all’incontro di Roma del prossimo 1-2-3 marzo.

Leggi qui l’articolo completo originale.

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Attualità

Il trattoRE è nudo – dalla Comunità di Resistenza Contadina Jerome Laronze

A proposito delle proteste degli agricoltori

Noi contadini e contadine della rete fiorentina di Genuino Clandestino stiamo osservando fin dal suo inizio questo importante momento di lotta, agito e provocato dagli attori principali del sistema industriale della produzione del cibo.

Non è stato semplice prendere una posizione in merito a gli eventi che in questo inverno caldo stanno attraversando gran parte delle città europee. Ormai da settimane gli agricoltori sono scesi in strada con i propri trattori per protestare contro le politiche stringenti che colpiscono il primo settore, quello della produzione del cibo; questi imprenditori agricoli, così definiti per legge, si ribellano alle imposizioni di un complesso di leggi e regolamenti e ad un altrettanto complesso sistema di incentivazione (la PAC su tutto) nella sua ultima versione (2023-2027), che accusano come penalizzanti nei loro confronti.

Tali misure si inseriscono nel solco della cosiddetta “transizione ecologica”, formula ormai ambigua e oltremodo abusata, per tendere verso una più “sostenibile” modalità di produzione del cibo, innescando un braccio di ferro con gli attori primari della filiera. Proteste spesso accompagnate e sostenute da cittadini che in modo più o meno strutturato e consapevole si sentono in balia di un sistema di cui non si fidano più, e che sentono anche di dovere contrastare, disertare, sovvertire.

Da una parte quindi il mondo della produzione del cibo convenzionale (gli imprenditori agricoli), quindi un modello industriale, energivoro, tossico e petrolifero, dipendente da input chimici e da spietati meccanismi finanziari capitalisti e neoliberisti (dinamiche globali di mercato regolate dai trattati sovranazionali).

Dall’altra il Parlamento Europeo e le organizzazioni interne degli stati membri, che sistematicamente hanno prodotto regolamenti e incentivazioni economiche producenti esattamente l’opposto delle finalità dichiarate nei decenni scorsi. La classe politica responsabile dell’attuale sfacelo sociale ed ambientale diventa improvvisamente “green” ed impone la presunta transizione scaricando totalmente i costi su soggetti già gravati da decenni di politiche che hanno teso a salvaguardare gli interessi delle multinazionali finanziarie, della produzione delle sementi, della chimica e delle biotecnologie, nonché del settore industriale della metalmeccanica .

Tutto fa pensare che l’attuale crisi del sistema darà luogo ad una transizione che vedrà imporsi la digitalizzazione e la manipolazione genetica come soluzione alle problematiche produttive ed ambientali, ovvero quell’agricoltura 4.0 detta “di precisione” e propagandata come “innovazione sostenibile”, ripetendo all’infinito l’inganno della rivoluzione verde prima e della green-economy poi.

All’interno di questo contraddittorio contesto, in cui l’argomento della produzione del cibo è diventato finalmente centrale nel dibattito pubblico, sentiamo il bisogno di prenderci uno spazio per rompere il dualismo di posizioni descritto in precedenza, restituendo significato al ruolo delle contadine e del loro lavoro.

Premesso che ogni rivolta, per noi, è da accogliere con simpatia e da comprendere a fondo, non difendiamo né offendiamo nessuna delle due parti: ci sentiamo completamente fuori da questa partita, semplicemente perché il campo su cui la si vuole disputare non è il nostro campo.

Essere contadine significa infatti prendersi cura della terra, saperla comprendere come parte integrante di un sistema articolato e interdipendente; significa intendere l’agro-ecosistema come un complesso di relazioni tra viventi, e non come spazio inerte da manipolare e sfruttare adottando l’una o l’altra tecnologia. La pratica quotidiana dell’agricoltura agro-ecologica ci pone completamente su un altro piano: le considerazioni sul modello agricolo da adottare e difendere non hanno basi meramente economiche, né sono legate ad interessi particolari e corporativi. Ciò che conta, per noi, è produrre cibo sano e di qualità, da distribuire il più possibile sul territorio, senza sfruttamento dell’umano sull’umano e dell’umano sull’ambiente, garantendo quindi la conservazione degli agro-ecosistemi senza depauperarne le risorse.

Ci stanno strette quindi analisi semplicistiche tra agricoltori “cattivi” e istituzioni “buone” e viceversa, così come l’appiattimento del dibattito pubblico su una dicotomia che relega la scelta tra la padella e la brace; per questo motivo abbiamo stilato alcuni punti che rappresentano alcuni capisaldi della nostra visione.

I nostri punti

  • Molte accreditate analisi e stime confermano il dato sull’importanza determinante della produzione industriale del cibo come fonte di inquinamento e ingiustizia sociale; pertanto non può esistere una vera e reale transizione ecologica senza promuovere e praticare la produzione locale e agro-ecologica del cibo.
  • Praticare agricoltura agro-ecologica vuol dire produrre cibo attraverso la costruzione di agro-ecosistemi sostenibili. La sostenibilità non riguarda soltanto le pratiche agricole, ma anche i rapporti esistenti nella componente umana che le mette in atto. Nello specifico questo significa eliminare ogni tipologia di sfruttamento del lavoro.
  • Avere consapevolezza che noi e il pianeta siamo la stessa cosa: avvelenando gli ecosistemi, alterando gli equilibri climatici e ambientali, bruciando le foreste, dirottando i corsi d’acqua, depauperando i suoli, distruggiamo noi stesse. Dobbiamo pertanto sostenere le pratiche che contrastano la devastazione dei territori e la loro messa a profitto.
  • L’ecologia imposta dall’alto, attraverso strumenti legislativi contraddittori e rispondenti ad interessi molteplici, non è applicabile e spesso risulta controproducente. È necessario viceversa valorizzare ciò che viene dal basso, dalle pratiche quotidiane, dalle dinamiche che definiscono le comunità agro-ecologiche. Attribuire le responsabilità dell’inquinamento e della distruzione dell’ambiente ai singoli è riduttivo e talvolta fuorviante: le colpe sono da ricercare nel sistema di produzione capitalista e in chi lo promuove.
  • Favorire la produzione locale su piccola scala, stimolando la presa in carico della produzione di cibo da parte delle comunità locali laddove possibile. In un’ottica più vasta, ciò si traduce nel tentativo di disegnare un diverso equilibrio tra città “consumatrice” e campagna “produttrice”, rafforzando quegli strumenti (mercati contadini, GAS, CSA, ecc.) che creano legami all’interno della filiera che riescono ad andare oltre il mero commercio.
  • Incentivare l’accesso alla terra e l’avviamento di attività contadine anche a chi non possiede adeguati strumenti economici, attraverso forme di credito comunitario e mettendo a disposizione i terreni incolti pubblici e privati. Oltre a rappresentare una dignitosa e sostenibile scelta professionale e di vita, l’incremento di numero degli addetti alla produzione agricola è necessario a rendere praticabile su scala più ampia il modello agro-ecologico, e quindi a rigettare un’agricoltura basata non sull’umano ma su meccanizzazione, automazione e input esterni.
  • Promuovere lo scambio e la custodia dei saperi tradizionali, la riproduzione dei semi e la condivisione comunitaria degli strumenti, nell’ottica di conservare e salvaguardare un certo grado di indipendenza rispetto alla messa a profitto del vivente e alla gestione verticistica di risorse e mezzi di produzione.
  • Favorire le pratiche agricole che conservano la fertilità dei suoli e il contenimento di patogeni ed infestanti senza l’utilizzo di input chimici. Chiudere il ciclo della materia all’interno dell’agro-ecosistema per quanto possibile, così come la messa al bando della monocoltura e la corretta esecuzione delle rotazioni colturali, sono solo alcune delle pratiche che consentono di rendere veramente sostenibile la produzione del cibo.
  • Combattere ogni forma di manipolazione genetica come i cosiddetti nuovi OGM (TEA); ciò per limitare i potenziali squilibri derivanti dalla loro immissione nell’ambiente, per contrastare il business della fornitura della sementi gestita da pochi colossi a livello mondiale e infine per smontare la narrazione che vede in questo tipo di tecnologia la risposta più efficace alle alterazioni dovute ai cambiamenti climatici, senza in questo modo tirarne in ballo le cause.
  • Smettere di equiparare i contadini con l’agro-industria a livello normativo, igienico in particolare. L’adozione degli accorgimenti previsti per legge è in moltissimi casi inutile e troppo costosa per attività il cui volume economico è molto limitato ed in cui la salubrità dei prodotti è garantita in tutt’altra maniera. Sostituire ad essa un sistema di autocontrollo partecipato gestito dalle comunità locali è necessario e già praticato all’interno dei circuiti di molte comunità contadine.

Comunicato della Comunità di Resistenza Contadina Jerome Laronze, rete fiorentina di Genuino Clandestino

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Palestina

La terra non c’è più e nemmeno le contadine

Non è più questione di terre da coltivare.
Non è più questione di coltivare.
La terra non c’è più.

“la densità sarà di circa 62.500 persone per chilometro quadrato.

In un’area aperta, senza grattacieli per ospitare i rifugiati, senza acqua corrente, senza privacy, senza mezzi di sostentamento, ospedali o cliniche mediche, senza pannelli solari per caricare i telefoni, e tutto questo mentre le organizzazioni umanitarie dovranno attraversare o avvicinarsi alle zone in cui sono in corso i combattimenti per distribuire le piccole quantità di aiuti che entrano nella Striscia di Gaza.

Sembra che l’unico modo per contenere tutte queste persone in uno spazio così stretto è farle stare in piedi o in ginocchio.

Forse sarà necessario formare dei comitati che stabiliranno i turni per dormire: alcune migliaia di persone si sdraieranno mentre le altre resteranno sveglie.

Il ronzio dei droni, le grida dei neonati con le madri che non hanno latte o ne hanno poco saranno la snervante colonna sonora.”

Questo ci si aspetta a Rafah (nel sud della Striscia di Gaza al confine con l’Egitto) dove circa 1,4 milioni di palestinesi sono stati spinti e concentrati.

“chiunque resta in un’area destinata a un’invasione di terra non è considerato un civile innocente; non è considerato “non coinvolto”.

Chiunque rimane nella sua casa ed esce per andare a prendere l’acqua in una struttura cittadina ancora in funzione o in un pozzo privato, gli operatori sanitari chiamati a curare un paziente, una donna incinta che va a piedi in un ospedale vicino per partorire: tutti, come abbiamo visto durante la guerra e nelle campagne militari passate, sono criminali agli occhi dei soldati. Sparare e ucciderli è previsto dalle regole di ingaggio delle forze armate israeliane.

L’esercito sostiene di rispettare il diritto internazionale, perché questi individui sono stati avvertiti che devono andarsene”

Amira Hass è una giornalista israeliana. Vive a Ramallah, in Cisgiordania, e scrive per il quotidiano Haaretz.

Da Internazionale, n. 1550 del 16 febbraio 2024.

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